sabato 10 settembre 2011

Riflessione domenicale di Padre Seraphim

Серафим Валеряни Ропа
 
Domenica 11 settembre 2011
XIII dopo Pentecoste

Nel nome del Padre e del Figlio e del Santo Spirito. Amen.
“Guardate con che grossi caratteri vi ho scritto di mia propria mano!” Una frase che si ritrova ogni tanto nelle lettere di san Paolo, è la frase chi mi ha “salvato”. Quando iniziai a studiare qualcosa di teologia mi consigliarono un libro scritto da un protestante sull’origine del Nuovo Testamento. Ogni pagina di questo libro era per me un’angoscia, non so come riuscii a finirlo ma alla fine il succo del libro era che si poteva dubitare di tutto: che san Paolo avesse scritto almeno una lettera, che san Paolo fosse un credente, perfino si poteva dubitare che san Paolo fosse veramente esistito. Questo dubbio durò finché il mio padre spirituale mi disse: “Ci sono così tante specie di protestanti che non si riesce neanche a contarli, chissà se almeno credono nelle bistecche che mangiano, ma io ne dubito. San Paolo non scriveva le lettere di proprio pugno ma si faceva aiutare così come altri scrittori del Nuovo Testamento, per questo in alcune lettere si trovano stili letterali leggermente diversi ma spesso si trova la dicitura - Guardate con che grossi caratteri vi ho scritto di mia propria mano! – perché nei saluti finali o in una parte della lettera egli si “firmava” per dare l’autenticazione a quella lettera a chi conosceva la sua scrittura. Non guardare alla Bibbia soltanto, guarda anche alla Tradizione della Chiesa. Quando san Paolo scriveva ai Corinzi, ai Tessalonicesi, ai Filippesi… la Chiesa a Corinto, a Tessalonica, a Filippi già esisteva, è la Tradizione di quelle Chiese che ci ha tramandato le sue lettere come autentiche, è la Chiesa che ha fatto la Scrittura non che prendo la Scrittura e mi faccio la mia chiesa.” Trovai quelle parole illuminanti chiusi definitivamente il libro (e con esso l’ateismo al quale mi aveva condotto) e lo restituii per sempre alla biblioteca dimenticandomi per sempre titolo ed autore. Da allora cerco di leggere libri di teologia scritti da persone più affidabili e non dico cristiane ortodosse ma possibilmente almeno credenti.

Vi ricordo che domani per chi segue il calendario giuliano è la decollazione di san Giovanni il Battista quindi giorno di grande digiuno, e mercoledì 14 (cioè l’1 settembre) sarà il primo giorno dell’anno ecclesiastico. Mentre per chi segue il calendario gregoriano mercoledì 14 sarà l’esaltazione della Santa Croce quindi giorno di grande digiuno.
Buona Domenica a tutti.

p. Seraphim

mercoledì 7 settembre 2011

Dal sito: AsiaNews

Un “soddisfatto” Bartolomeo I spera nella 

riapertura della scuola di Chalki

Istanbul (AsiaNews) – Bartolomeo I, patriarca ecumenico di Costantinopoli, ha espresso grande soddisfazione per la decisione del premier Tayep Erdogan di restituire le proprietà sequestrate dopo il 1936 a tutte le minoranze non islamiche. Allo stesso tempo, incontrando il primo ministro turco, egli ha espresso la speranza che vi siano “passi ulteriori”. Erdogan ha risposto “ Questo è solo l’inizio”.
  Il patriarca spera con forza che ritorni alla Chiesa ortodossa la scuola teologica di Chalki e che venga riaperta l’accademia, fatta chiudere dal governo turco nel 1971.
 Quasi ad anticipare la possibilità dell’apertura, Bartolomeo ha già nominato mons. Elpidoforos Lambrinidis, metropolita di Bursa, come priore del monastero di Agia Triada (SS Trinità), e direttore degli studi: la scuola teologica di Chalki appartiene infatti al monastero.
  Dopo tante pressioni della comunità internazionale e soprattutto dell’Unione europea, il governo di Erdogan ha pubblicato un decreto con cui si restituisce alle minoranze greco-ortodosse, armene, ebree e altri gruppi non islamici, migliaia di proprietà che il governo turco aveva loro ingiustamente sottratto o sequestrato, contravvenendo ai loro impegni internazionali.
  La decisione ha sapore storico perché fa cambiare la visione delle minoranze religiose di Ankara, dopo oltre 70 anni.
 Ieri il patriarca ecumenico si è recato alla Madonna di Souda per la festa della Sacra Zona di Nostra Signora. La chiesa dove egli ha celebrato si trova a ridosso dell’antica muraglia bizantina nella città. Nella sua omelia, Bartolomeo I ha per la prima volta commentato la decisione del governo.
  “Oggi è un giorno molto particolare - ha introdotto il patriarca - perché i festeggiamenti avvengono a pochi giorni dall’annuncio della restituzione delle proprietà da parte del governo turco, sottratteci ingiustamente dopo il 1936. É un momento di grande gioia non soltanto per noi cristiani ortodossi, ma per tutte le minoranze che vivono da secoli su queste terre”
  “Meglio tardi che mai” ha esclamato, e ha aggiunto: “Se la Turchia si ritiene uno Stato di diritto, tutto deve realizzarsi nel contesto della giustizia e non dell’illegalità”.
 Alcuni commentatori sottolineano questa frase perché essa inquadra l’iniziativa di Erdogan, non come un atto di favore verso le minoranze non musulmane, ma come un atto di ripristino per un’ingiustizia perpetrata ai loro danni, malgrado gli impegni e gli accordi internazionali assunti dai precedenti governi turchi e mai rispettati.
  Bartolomeo ha infine riferito che nell’esprimere la sua soddisfazione, gioia e ringraziamenti ad Erdogan, ha voluto ricordargli che “tutti sono in attesa di ulteriori passi significativi verso le minoranze non musulmane”. Il premier gli ha risposto: “Questo è solo I’inizio”.
  Intanto il patriarca ecumenico ha nominato proprio ieri il nuovo priore del monastero di Agia Triada (SS Trinità), al quale appartiene la scuola teologica di Chalki. Il nuovo priore è mons. Elpidoforos Lambrinidis, metropolita di Bursa. Egli sarebbe destinato ad assumere la direzione degli studi di Chalki, non appena la scuola verrà riaperta.
  Negli ambienti diplomatici si vocifera che questa nomina fa presagire la probabile ed imminente riapertura della scuola teologica di Chalki, perchè - si dice – “Erdogan vuole chiudere tutte le pendenze con le minoranze non musulmane, retaggio dei governi del vecchio establishment”.
  Le scelte a favore delle minoranze non islamiche mostrano il premier impegnato in una nuova geopolitica mediorientale. Il gesto ulteriore della riapertura di Chalki lo riqualificherebbe ancora di più non solo agli occhi degli occidentali, ma in tutta l’area.

martedì 6 settembre 2011

11 settembre (29 agosto): Martirio del Precursore e cugino di Gesù Giovanni il Battista.

LA DECOLLAZIONE DEL SANTO GLORIOSO PROFETA,
PRECURSORE E BATTISTA GIOVANNI
Commemorazione l'11 settembre  (29 agosto)

La decollazione del Profeta, Precursore del Signore, Giovanni Battista: Gli evangelisti Matteo (14,1-12) e Marco (6,14-29) ci hanno lasciato i racconti del martirio di Giovanni Battista avvenuto nell’anno 32 dopo la nascita di Cristo.
Dopo il Battesimo del Signore, san Giovanni Battista fu rinchiuso in prigione da Erode Antipa, il tetrarca (sovrano di un quarto della Terra Santa) e governatore della Galilea. (Dopo la morte del re Erode il Grande, i Romani divisero il territorio della Palestina in quattro parti, e misero un governatore a capo di ogni parte. Erode Antipa ricevette la Galilea dall’imperatore Augusto).
Il profeta di Dio Giovanni aveva apertamente denunciato Erode per aver lasciato la moglie legittima, la figlia del re arabo Areta, e poi aver cominciato a convivere con Erodiade, moglie di suo fratello Filippo (Luca 3,19-20). Il giorno del suo compleanno, Erode fece un banchetto per i dignitari, gli anziani e un migliaio di capi del popolo. Salomè, figlia di Erodiade, danzò innanzi agli ospiti ed Erode ne fu incantato. In segno di gratitudine verso la ragazza, giurò di darle tutto quello che avrebbe chiesto, finanche la metà del suo regno.
La vile ragazza su consiglio della sua malvagia madre Erodiade chiese che su un piatto le fosse data la testa di Giovanni il Battista. Erode si inquietò, perché temeva l’ira di Dio per l’omicidio di un profeta, che prima aveva ascoltato. Ebbe anche paura del popolo, che amava il santo Precursore. Ma a causa degli ospiti e del suo giuramento sconsiderato, diede ordine di tagliare la testa di san Giovanni e di darla a Salomè.
Secondo la tradizione, anche dopo la morte la bocca del predicatore del pentimento ancora una volta si aprì e gridò: “Erode, non ti è lecito avere la moglie di tuo fratello Filippo”. Salomè prese il piatto con la testa di san Giovanni e lo diede a sua madre. Erodiade in preda alla frenesia oltraggiò ripetutamente la testa del santo facendola poi gettare in un luogo immondo. Ma la pia Giovanna, moglie di Cusa amministratore di Erode, seppellì la testa di Giovanni Battista in un vaso di terra sul Monte degli Ulivi, dove Erode aveva un appezzamento di terreno. (Il ritrovamento del Capo Venerabile viene celebrato il 24 febbraio). Il corpo santo di Giovanni Battista quella notte fu preso dai suoi discepoli e sepolto a Sebastia, là dove l’atto malvagio era stato compiuto.
Dopo l’omicidio di san Giovanni Battista, Erode continuò a governare per un certo tempo. Durante il processo che precedette la morte del Salvatore, Ponzio Pilato, governatore della Giudea, gli inviò Gesù Cristo per farlo giudicare, ma Erode dopo averlo beffeggiato glielo rimandò (Luca 23, 7-12).
Il giudizio di Dio giunse su Erode, Erodiade e Salomè già durante la loro vita terrena. Salomè in un inverno, attraversando il fiume Sikoris, cadde attraverso il ghiaccio, che aveva ceduto in modo tale che il suo corpo era in acqua, ma la sua testa era intrappolata al di sopra del ghiaccio. E avvenne che come un tempo ella danzava con i piedi sulla terra, ora invece si agitava disperatamente nell’acqua gelata. Così rimase intrappolata fino al momento in cui il ghiaccio affilato le tagliò il collo.
Il suo cadavere non venne trovato, ma la testa venne portata ad Erode ed Erodiade, allo stesso modo in cui un giorno lei aveva portato la testa di san Giovanni Battista. Il re arabo Areta, per vendicare l’affronto mostrato a sua figlia, mosse guerra contro Erode. Erode sconfitto subì l’ira dell’imperatore romano Caio Caligola (37-41) e fu esiliato con Erodiade prima in Gallia, e poi in Spagna.
La Decollazione di San Giovanni Battista, è un giorno di festa stabilito dalla Chiesa, in cui si osserva un digiuno stretto a motivo del dolore dei cristiani per la morte violenta del santo. In alcuni paesi ortodossi i devoti in questo giorno non mangiano da un piatto piano o usano un coltello o mangiano cibo di forma rotonda.
Oggi la Chiesa fa memoria dei soldati ortodossi uccisi sul campo di battaglia, come stabilito nel 1769 al tempo della guerra della Russia contro i turchi e i polacchi.
 

Tradotto per © Tradizione Cristiana da E. M. agosto 2011

sabato 3 settembre 2011

Riflessione a cura di p. Seraphim

Серафим Валеряни Ропа
 
XII Domenica dopo Pentecoste – Tono III
Letture: 1 Cor. 15,1-11 / Mt 19,16-26

Nel nome del Padre e del Figlio e del Santo Spirito. Amìn.
“….Che cosa mi manca ancora?” Quanto è profonda la domanda del giovane ricco. Lui aveva avuto tutto dalla vita, era ricco e quindi rispettato, poteva permettersi lussi che molti dei suoi vicini non potevano neanche sognare, eppure tutto questo non appagava pienamente la sua anima. E’ un fedele e devoto osservante dei comandamenti, li ha osservati fin dalla sua giovinezza, eppure neanche questo gli basta. Che cosa dunque gli manca? Il Signore Gesù glielo dice in una maniera per lui sconvolgente: “Va, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo, poi vieni e seguimi.”, è come se gli dicesse: “Non ti manca niente agli occhi del mondo, sei ricco, giovane, devoto, ma ti manca la cosa fondamentale, ti manco Io.” Fratelli e sorelle dove riposa in pace il nostro cuore? Dove sentiamo la nostra vera gioia? Il compimento della nostra vita? Unicamente e solo in Dio, unicamente solo in Cristo Gesù nostro Salvatore. Non è una banalità o una frase fatta. Egli, il nostro creatore, ci ha voluti per amore, per essere oggetto del suo amore infinito e il nostro cuore, che è fatto per amare, non può trovare risposo se non in Lui. I beni del mondo ci danno una gioia momentanea ma poi ci stancano, se a loro attacchiamo il cuore sono un po’ come dei surrogati tipo i dolcificanti artificiali rispetto allo zucchero, sì dolcificano ma poi ci lasciano quel senso di amaro in bocca e lo zucchero diciamocelo è proprio meglio dei dolcificanti. Così se usiamo dei beni materiali, perfino della religione, senza fare di Dio il centro della nostra vita a lungo andare sentiamo un amaro in bocca e tendiamo ad altro, ma nel contempo è come se questi beni si attaccassero alla nostra anima e non ci lasciassero andare “…il giovane se ne andò triste (triste e sottolineo triste), poiché aveva molte ricchezze.”
Gioia o tristezza, primato di Dio o primato del mondo, questa è la scelta a cui la vita cristiana ci pone davanti, cerchiamo di fare la scelta giusta. Se quel giovane ricco avesse detto di sì a Cristo ora lo ricorderemmo con tutta probabilità per nome e come un grande santo della Chiesa, invece si ricorda semplicemente come il giovane ricco. Preghiamo Iddio che nell’ultimo giorno si ricordi di noi per nome e ci salvi Lui che è il Salvatore delle nostre anime e dei nostri corpi.
Buona Domenica a tutti.

p. Seraphim

mercoledì 31 agosto 2011

http://makj.jimdo.com/ (Grazie Fratello Josiph Cosentino salvezza dell'identità della Fede Ortodossa Italo-Albanese)

Gli albanesi, andavano infettando il popolo con le stravaganti opinioni, e nutrivano nell’animo il veleno contro l’autorità del papa…, che avevano del disprezzo per le censure, e indulgenza, che negavano le pene del purgatorio, somministravano l’Eucarestia ai bambini…” (dal Romanus Pontifex - bolla papale di Pio IV – 1564)
 
 
GLI ALBANESI DI CALABRIA E IL GIUBILEO [i]
 
 
di Pietro De Leo
        
La breve relazione che terrò sul tema affidatomi, contiene alcuni aspetti biografici ed altri che connotano la mia esperienza di studi fatti su questa particolare etnia, quale è quella degli Albanesi calabresi. Ero ancora ragazzo quando nella città di Lecce mi aggiravo nei pressi di Santa Croce dove c’è tuttora una chiesa greca, l’unica parrocchia italo-albanese, nel quartiere omonimo, che non si apriva mai nello stesso giorno in cui si officiava nelle chiese latine, né sapevamo quando questo luogo di culto degli Albanesi veniva aperto. Appena si sentivano suonare le campane, tutti noi, ancora ragazzi, ci recavamo nei pressi di questa chiesa, incuriositi dalla diversità di questo luogo di culto, dove non c’erario altari privilegiati, né posti a sedere, per cui bisognava rimanere in piedi. Il Papas veniva presso questa comunità quando credeva, voleva o doveva, e noi eravamo curiosi di vedere e di sentire questa Messa che era diversissima da quella che noi ascoltavamo almeno una volta la settimana, ogni domenica. E la cosa ci incuriosiva davvero tanto.
     Ciò che notai sempre e subito era la diversità di approccio tra la religiosità greca e quella latina, erano però intuizioni che non si potevano capire a sette o otto anni e che invece, un giorno mentre, giovane liceale, andavo da Lecce a Bari, cominciai a capire meglio quando, nel vagone del treno dove io e il mio amico alloggiavamo, salirono a Brindisi alcuni preti ortodossi.
     Nel nostro scompartimento c’erano alcune suore che recitavano il rosario e, cosa che non dimenticherò mai — era il 2 agosto — dicevano che, non potendo partecipare quel giorno alla Messa, non avrebbero potuto lucrare l’Indulgenza.
     Appena videro questi Papas, col cappello inconfondibile, che entravano nello scompartimento, si alzarono come se avessero visto il diavolo e se ne andarono.
   Qualcosa non mi convinceva, e proprio da questo episodio nasceva la curiosità, divenuta in seguito anche riflessione culturale, di avviare uno studio approfondito sugli Albanesi di Lecce, dove erano già presenti nel secolo XVI, sin dagli inizi del Cinquecento.
     Avevo già pubblicato uno Stato delle Anime e mi ero imbattuto in quasi seimila Albanesi che costituivano un terzo della popolazione; vedevo però che nella mia città la loro lingua non si parlava più.
     Ma, ecco il fatto curioso che era emerso: c’era stato un Pietro Antonio Sanseverino, Principe di Bisignano, che aveva sposato una Castriota Scanderbeg, duchessa di San Pietro in Galatina e che si era interessato a questi reietti o depravati come si diceva nei Capitoli della città di Lecce: si esortava a portarli via perché erano un vero disastro!
     Li avevano condotti qui in Calabria, in luoghi impervi, dove appunto vigeva la cosiddetta «legge della montagna»: non era consentito loro uscire, specie nei giorni di fiera, perché erano considerati e chiamati «ladroni e mascalzoni».
     Parlavano una lingua diversa, tant’è che sono stati considerati come diversi e tali si qualificarono essi stessi.
* * *
 
Nell’ottobre del 1997 seguivo per conto della Regione Calabria i finanziamenti della Legge sul Giubileo, e vedevo che tantissimi paesi albanesi avevano fatto richiesta per i contributi economici legati all’Anno Santo. E visto che, appena sono a Roma una visita fugace alla Biblioteca Vaticana non manca mai, mi capitò sottomano una lettera del cardinale Santoro del 24 gennaio 1577 al vicario episcopale di Crotone, Girolamo Valente, il quale aveva denunciato di aver scoperto tutti eretici i preti greci della sua diocesi.
     Tra le accuse abituali che venivano loro mosse, in primo luogo, vi era la denuncia della convinzione che si dice essere propria di tutti gli Albanesi di Calabria, secondo cui non si devono osservare «iubilei
et indulgentiae» che manda il santissimo Padre, ma solo quelli che manda il Patriarca di Costantinopoli.
     Volli verificare la notizia e trovai che negli Statuti del 1596 della diocesi di Cassano redatti dal vescovo Auderio, poi segretario del cardinale Borromeo, si legge testualmente nel capitolo De
indulgentiis: «Ubi mero de indulgentiis agitur et iubileis, quondaim greci nullo pacto persuaderi possunt ut illa osservent» («Dove poi si tratta delle indulgenze e dei giubilei, non c’è per nulla verso che essi si possano convincere di questo»)
     Naturalmente dobbiamo capire perché gli Albanesi da sempre hanno osservato tale norma, nonostante tutti i contraccolpi dell’episcopato latino che li voleva assolutamente organizzare all’interno della propria Chiesa, e perché hanno sempre resistito alla celebrazione del Giubileo. Uno dei motivi fondamentali era il parametro diverso del computo del tempo; come ben sapete, noi cristiani, tardivamente, solo dal quarto secolo, iniziamo il computo in die a Nativitate Domini nostri Jesu Christi, ovvero dalla nascita di Cristo.
     La Chiesa greca, ha sempre calcolato gli anni ab origine mundi, quindi l’anno della nascita di Cristo éra il 5508, ed in Calabria in particolare, fino al 1620, molte comunità hanno sempre osservato sia il computo dalla creazione, sia quello greco, e iniziavano tranquillamente l’anno il primo di settembre, secondo quanto avveniva nel mondo orientale e nella Chiesa bizantina.
     Parlare di Giubileo era dunque un’argomentazione. che andava al di fuori dei riferimenti canonici e religiosi della Chiesa orientale che non concepisce in alcun modo il discorso sulle Indulgenze.
     Eppure, la cosa mi stupiva perché ricordavo di aver letto nel sesto capitolo del terzo libro del Rodotà[ii], quanto segue: «La fede che hanno professata gli Albanesi è quella stessa che è spuntata nell’emisfero della Macedonia nei primi secoli della chiesa, per opera di San Paolo; fu dai loro primi antenati, successivamente, tramandata ai tardi nipoti, i quali, volgendo a lei avidi gli occhi e stendendo pure le mani, la accolsero nei loro petti e la crebbero nei loro cuori serbandola schietta e limpida qual fu la pura sorgente donde sgorgò senza mai intorbidirla con mescolanza di fango e di creta che ne hanno dato sinceri e sicuri contrassegni fino ai nostri giorni».
     Quando poi mi soffermavo a leggere le memorie dei Valdesi di Calabria, che chiamavano «mescolanza di fango e creta» le Indulgenze dei Romani Pontefici, i quali le concedevano probabilmente anche in senso mercantile, allora ecco che in un certo senso questa connotazione del rifiuto del Giubileo e dell’Indulgenza, la trovavo molto adeguata agli schemi mentali e religiosi degli Albanesi stessi.
     A tale proposito, numerosi sono gli interventi che i Pontefici Romani soprattutto a partire dal Giubileo del 1575 al Giubileo del 1650, hanno fatto sia nei riguardi dei Grecanici sia nei riguardi degli Albanesi, minacciandoli di scomunica se avessero ancora ritenuto di non dovere accettare la sacra Indulgenza del Giubileo, che era in effetti molto lontana dalla loro spiritualità, dalla loro religiosità e dalla loro catechesi
     Darò poi tutte le indicazioni che vengono portate in questo senso nei Registri pontifici; vero che qualche Albanese è disposto ancora ad andare in pellegrinaggio verso la Terra Santa, ma non per acquistare l’Indulgenza bensì per visitare i luoghi della Redenzione.
     Siamo in presenza di due mondi differenti e distinti che sono stati poi in parte ricongiunti quando dopo l’istituzione del Collegio Greco (prima quello di Roma e poi quello di San Benedetto Ullano nella diocesi di Bisignano), con la sua particolare attenzione e lungimiranza la Sede Apostolica ha riconosciuto almeno parte di quelle identità religiose, costituendo tra l’altro due eparchie o diocesi greche per gli italo-albanesi (prima quella di Lungro in Calabria neI 1919, poi quella di Piana degli Albanesi in Sicilia nel 1937).
     Proprio quest’anno mi è capitato di andare al Collegio Greco di Roma e di incontrare il vescovo di Piana degli Albanesi, al quale ho rivolto questa domanda: « Eccellenza, ma lei crede nel Giubileo? »; rispose: «Ben conoscendo la teologia ortodossa, non scriverò mai la parola Giubileo nelle mie lettere pastorali».
     Era la risposta che io avevo già dato ai sindaci che facevano pressione per avere i finanziamenti del Giubileo, invitandoli ad una maggiore serietà nelle richieste. Giustamente, di fronte alla mia esortazione il comune di Guardia Piemontese, ritirò subito la sua richiesta in merito.
     Agli altri sindaci cercai di spiegare che era inutile richiedere finanziamenti in vista del Giubileo, visto che le loro tradizioni sono tutt’altro che in sintonia con tali prospettive e pratiche religiose.
Il sindaco di Bova mi disse: <
     A Bova difatti è stato finanziato il totale recupero della sinagoga. Perciò credo che anche queste situazioni, giubilari o non giubilari che siano, ci consentono di approfondire quei piccoli segmenti socio-culturali che sono propri dell’identità religiosa di un popolo, che vanno preservati come tali e che non vanno invece soggetti a confusione.
     Oggi esiste invece un pericolo reale: quello dell’omologazione degli Albanesi alle tradizioni della Chiesa e della cultura latina. Il pericolo è presente e per due motivi: quello che ormai gli Albanesi finalmente non vivono più isolati; la maggioranza di essi vive infatti in luoghi aperti che non tutelano, come accadeva in passato, una etnia chiusa (ed è bene che sia così); il secondo motivo è che per poter comunicare usano non il proprio idioma, ma la lingua italiana.
     Ed ancora, sussiste tra gli Albanesi la tendenza ad avere una sorta di riverenza verso la Chiesa latina pur avendo lottato fermamente in passato per preservare l’identità del proprio rito; tale riverenza si apre oggi a tal punto che era stato addirittura programmata l’istituzione di un santuario con possibilità di lucrarvi le indulgenze. Per fortuna un illuminato prelato come mons. Fortino osservò giustamente che la cosa era alquanto impropria e dell’iniziativa programmata non se ne è fatto più niente.
     Da tutto ciò nasce la considerazione che occorre stare molto attenti: lo studio del passato e quello delle identità delle singole etnie, ci consente anche di porre dei punti fermi, che non sono ottusità mentale, ma sono, a mio avviso, punti solidi per preservare dall’omologazione queste etnie che vanno invece e giustamente tutelate e salvaguardate
     Il Giubileo allora non c’entra assolutamente con le tradizioni degli italo-albanesi ed avrebbe più senso se le eparchie di Lungro o di Piana degli Albanesi si recassero a Roma non per il Giubileo, ma ad limina Apostolorum, come anticamente facevano i monaci greci; forse la cosa sarebbe sicuramente più appropriata e il giusto senso sarebbe più evidente.
     Il pellegrinaggio verso la tomba degli Apostoli aveva infatti questo particolare significato: non per ottenere l’indulgenza, ma per un forte senso di presenza fisica dei Santi Pietro e Paolo in quel luogo che è stato santificato dalla testimonianza altissima della loro fede nel martirio.
 
NOTE

[i] Tratto dagli “Atti del convegno di studi” dedicato alle “Minoranze etniche e culturali nella Calabria settentrionale fra il XV e il XIX secolo”, pagg. 23/27 – Presente nei Quaderni “il Palio” a cura di Luigi Falcone – Bisignano 19 giugno 2000;
[ii] Rodotà, Dell’origine, progresso e stato presente del rito greco in Italia, Roma, 1763.

venerdì 5 agosto 2011

 A tutte le Fedeli, a tutti i Fedeli,
a tutte le amiche,
a tutti gli amici che stanno 
usufruendo delle sospirate ferie

BUONE VACANZE

buon divertimento, buon riposo
ovunque voi siate !!!!!!