Sono giorni che canto “O monoghesis”
segno che mi è entrato nell’anima più delle canzoni di Sanremo. E mi
dico: che eredità, che responsabilità, ci hanno lasciato gli avi.
" La liturgia in greco".
Se
è vero quello che si racconta, i nostri preti antenati, che non erano
sapienti come i nostri, tutti laureati in teologia, andavano, armati
solo di fede, in Grecia o a Costantinopoli per farsi consacrare
sacerdoti, affrontando chissà quali pericoli. Erano forse analfabeti i
più, ma forse si ricordavano del greco che di sicuro i loro padri
parlavano quand’erano in Grecia da dove partirono per l’Italia dopo la
disfatta di Koroni.
Oj e Bukura Morè , cantavano.
Non cantavano “oj e bukura Shqiperi”.
E
se venivano dalla Morea, erano bilingui come lo siamo noi, ai quali, se
per qualche evento fosse impedita la lingua italiana, che è lingua passepartout, rimarrebbe solo l’Arbëresh.
Il
greco, i nostri antenati, una volta stabilitisi in Italia, trascorsi i
secoli, lo dimenticarono – destino di tutti gli emigrati. Non era esso
più la lingua ufficiale, non era la lingua dei commerci, non lingua
burocratica, non la lingua del pane come direbbe Zef Skirò di
Maxho, per questo c’era l’italiano che soppiantava il greco. Che rimase
però legato solo alla liturgia, come d’altra parte il latino per litnjët, i latini dell'impero d'occidente.
Ai
miei tempi c’erano ad Acquaformosa analfabeti che parlavano solo
l’Arbëresh. E ai maschi che avevano fatto il servizio militare poteva
capitare di capire l’italiano ma di non parlarlo – altro fenomeno legato
all’emigrazione: capisco il piemontese ma non lo parlo.
D’altra
parte quanti sono quelli che ad Acquaformosa capiscono l’arbëresh, ma
non lo parlano? Ad esempio: Alberto Lotito, Taurino, ed altri di cui non
ricordo il nome. Così sarà avvenuto ai nostri antenati con il greco che
capivano forse ma non parlavano: non parlata quella lingua non poteva
che sparire dall’uso nelle necessità quotidiane che incrociavano nei
commerci e nella burocrazia quelle italiane che noi chiamiamo latine. Latine, litire, perché dell’impero d’occidente - essendo noi greco-albanesi “romei”,
romani dell’unico impero romano quello d’oriente sopravvissuto dopo
l’istituzione del Sacro Romano impero che era dei barbari Franchi.
In
Morea, se da lì i nostri avi provenivano, ma anche dalla tebaide come
testimonia il cognome Capparelli, gli arberori erano come i ticinesi
italofoni in Svizzera, i quali non si dicono italiani ma svizzeri, e non
hanno come eroe Garibaldi, come noi Skanderbeg, ma Guglielmo Tell –
dovremmo cambiare eroe eponimo. È vero che ai tempi non c’era l’idea
poltica di Grecia, ma l’area linguistica culturale sì.
La
grancassa Shqipetara battuta dai nostri intellettuali, tutti preti
cattolici (Papas Sepa, Papas Solano, papas Vorea Ujko ecc…) puzza di
bruciato. D’abbruciamento di una eredità e di una identità che doveva
farci salvi dalle persecuzioni del Principe Spinelli, il quale in tempi
in cui non si parlava di ecumenismo di facciata, non si peritava di
assassinare da buon cattolico, come a Guardia Piemontese i Barbet, tutti
quelli che non cantavano in latino le lodi del Signore.
Per i nostri antenati era meglio dirsi Shqipetari, dato l’eroe eponimo defensor fidei, che greci.
Si
favoleggia di una resistenza di Lungro, e di una desistenza di Spezzano
agli attacchi dello Spinelli. Ma non sono uno storico. E dunque non mi
avventuro in discorsi che non sono i miei, non vorrei passare sotto le
forche caudine del sarcasmo di Francesco Damis.
Tuttavia
le domande sono ineludibili. Se venissimo dall’Albania governata dal
Defensor fidei, dove la messa si celebrava in latino forse non
celebreremmo una liturgia in greco: l’albania era sotto l’influenza di
Venezia, e dunque avrebbe avuto una messa latina, tradotta in albanese
dal vescovo cattolico, educato a Venezia, Gjon Buzuku, ma latina. Se
dunque celebriamo una messa in greco è perché i nostri erano greci di
lingua albanese, ma greci. Dunque, probabilmente, ortodossi.
Non
voglio avventurarmi qui in discorsi che riguardino le appartenenze a
questa o a quella confessione. La cosa non mi appassiona.
Mi
appassiona, invece, il fatto che a me sia toccata questa, che non so
come chiamare se fortuna o jattura, d’essere nato, gettato, in una
cultura che parla Arbërisht e prega in greco.
E
se le prime parole che ho sentito appena nato erano arberische, di
sicuro le seconde sono state greche, quando (allora s’usava) fui offerto
come primogenito al Signore e zoti më dha grekisht uratën, - il prete
mi ha benedetto in greco. E v’assicuro che don Matrangolo allora non
metteva nella liturgia parole arberische o italiane. Quindi se devo
credere a un imprinting, le mie orecchie sono state impresse per
l’eternità con fonemi arberischi e greci. Dunque non posso fare a meno,
quando mi domandano delle mie radici, di dire che sono un greco di
lingua albanese.
Forse
sarà meglio che io pensi che sia stata una iattura l’essere nato greco
albanese, perché soffro a vederle buttate alle ortiche le due mie
culture, soprattutto la greca – dimidium animae meae - nella egemonia
dell’italiano.
Come si sono buttate alle
ortiche? Per esempio col non aver avuto a suo tempo il buon senso di
istituire a Lungro piuttosto che un liceo scientifico, uno classico.
Essendoci solo quello, gli studenti solo a quello si sarebbero iscritti,
e oggi avremmo un buon numero di lettori e di intenditori di greco.
L’essere
cresciuti nel culto dei santi cattolici e nel non aver mai sentito nel
catechismo i nomi di Basilio, di Crisostomo, del Nisseno, del Nazianzeno
ecc …
L’aver sconsideratamente chiuso i seminari e non averli costituiti come collegi o centri di cultura orientale – delle madrase, come i musulmani, insomma, che in quelle allevano gli “hafiz”, i “custodi” della lingua del Profeta. Se avessimo anche noi delle madrase oggi leggeremmo il Nuovo testamento di prima mano.
Il
greco. Avendo insegnato per pigrizia come Skirò Di Maxho in una scuola
media stavo per dimenticare la lingua classica che mi hanno lasciato,
soprattutto in cuore, i miei avi.
Pensate: la
lingua delle feste, la lingua che rendeva speciali le nostre feste, la
lingua misteriosa del mistero del sacro. Quando entrai la prima volta in
una chiesa latina rimasi sconcertato a non sentire il greco: che
funzione era mai quella dei latini? E quando feci una volta la comunione
con l’ostia, qualcuno mi spiegò che quella era la comunione di Giuda,
il quale aveva mangiato ma non bevuto (si beve solo con gli amici –
aveva aggiunto don Fernando Manes che a Lungro era un lenza).
Eredità
greca, che farne? Stavo perdendo il greco - studiato sin dalla prima
media, approfondito a Grottaferrata con le lezioni di Padre Ignazio.
Stavo per dimenticare il greco.
Sennonché
durante le mie discussioni con don Matrangolo, durate una trentina di
agosti, ogni giorno all’ “ora del caffè”, diceva Lui, siccome Zoti mi faveva citazioni in greco, che qualche volta mi mettevano in imbarazzo, decisi di riprenderne lo studio.
Incominciai
con la rilettura del Nuovo Testamento. Per me era la via più facile,
ne conoscevo brani a memoria, soprattutto quelle pericopi delle lettere
di Paolo che ripetevo a tutte le messe del mattino in collegio e a tutte
le messe cantate (ero molto ricercato nei funerali), essendo la mia la voix d’un ange,
come si espresse la moglie del console francese che mi sentì cantare i
tropari a Palazzo Venezia a Roma (ci sarà qualcuno a testimoniare per me
di questi eventi da quando non c’è più Padre Gabriele che mi prendeva
come suo chierichetto a servirgli messa).
Ripresi, poi, a pregare in greco ogni mattina coi salmi, con la dossologia, a ripetere i tropari della Paráclisis e dell’Akáthistos e a invocare ( lo faccio ancora oggi) lo Spirito, con il Vasilev Uranie.
E
il greco cominciò a rifiorire nella mia memoria, così dal Nuovo
Testamento potei passare all’Antico, un capitolo ogni giorno (come fa
Erri De Luca – ma lui in ebraico) e da lì a Platone.
Alle
discussioni con don Matrangolo che durante gli ultimi anni, si erano
trasformate in lunghe telefonate notturne (chiamava lui, dunque non c’è
dubbio che mi stimasse) alle sue citazioni in greco, potei opporre le
mie.
Se ne avessi avuto voglia sarei potuto
partire per Atene o Costantinopoli e farmi ordinare qualcosa, ma scoprii
che non avevo bisogno di nessuna ordinazione perché col battesimo, col
solo battesimo, ero istituito RE, PROFETA E SACERDOTE. Nasceva allora,
con l’approvazione di Don Matrangolo (“ma non dirlo in giro”,
consigliava la sua prudenza cattolica – ma non escludo che prendesse
abilmente in giro le mie alzate d’ingegno), il Christianus sine glossa che sono.
Che vuol dire Christianus sine glossa?
Che posso, senza bisogno di ecumenismo, frequentare tutte le chiese,
gli ortodossi, i copti, i valdesi (grandi perseguitati) che sono miei
grandi amici intanto perché hanno grandi teologi, davanti ai quali
impallidiscono i cattolici, anche il chiacchierone piemontese primo
della classe di Bose - che io scrivo Böse – e poi perché non sono
fascisti come Ruini, Bertone,Sepe e compagnia (delle opere) bella, non
sono alleati del Mestatore di Arcore e non benedicono il Celeste né i
vandeani di Léfevre … - anche per questo non frequento più le chiese
latine, se non per vedere qualche opera d’arte, e aspetto d’essere ad
Acquaformosa per andare a messa.
Ho ripreso il
greco, l’eredità che mi hanno lasciato i padri e verso di loro mi son
reso responsabile. Così oggi in quella lingua posso leggere Origene,
Basilio, il Nisseno, il Nazianzeno, Palamas, e farmi in qualche maniera
esperto nella ortodossia onorata nei nostri tempi da personaggi come
Evdokimov, Bulgakov, Berdjaev, Sestov, tutti, cristiani ortodossi laici
grandi teologi fuorusciti dalla Russia Sovietica. E posso trovare
rispecchiate le mie intuizioni teologiche in Maximos Lavriotis.
Non
è difficile, per chi volesse, riprendere il greco in mano, basta averne
una conoscenza di base e comprare libri con testo a fronte per un
“aiutino” quando è necessario, e aver voglia di spendere qualche euro
per volumi che costano – ma la spesa vale l’impresa : non accumulate
ricchezze di questo ordine borghese di cose.
Il greco, seconda lingua dei nostri padri, come l’italiano di noi figli, ormai integrati, come vuole la tolleranza cattolica.
E
tuttavia non posso non segnalare che ad Acquaformosa – non tutto è
perso - c’è un gruppo di persone non colte che cantano in greco tutta la
Paráklisis senza inciampare, senza storpiare le parole. Ed è per loro, per la loro enfasi che mi ha colpito una parola.
Cantavano “Alala
ta cheili tön asevõn tõn mé proskynounton tén ikona sou tèn septén, tén
istoretheisan hypò tou apostolou Lukã ierotatou tèn Odighétrian”.
(Per chi non conosce il greco: “Mute siano le parole degli empi che
non s’inchinano davanti alla tua pura icona “dipinta”, dal santo
Apostolo Luca, l’Odigitria (Colei che indica la strada)”.
Fu un attimo. Un’arricciatura nel canto, un po’ calcata, di una del coro su “Istoretheisan”
che mi fece porre attenzione a quella parola. L’ho tradotta, come
tutti, col participio “dipinta”, ma in italiano “dipinta” non mantiene
la polisemia di “istoretheisan”, la “tradisce”) perché per “dipingere” in greco, e nel greco bizantino, si ricorre a “Zographein” – i pittori d’icone sono chiamati “zographoi”,
cioè disegnatori, pittori, di figure umane. Per mantenere la polisemia
del verbo greco avrei dovuto più opportunamente, forse, tradurre
“raccontata”, “testimoniata”, tenendo presente che Luca non è solo
pittore, zographos, ma anche “storico”, colui che può “testimoniare”.
Al di là dei problemi di metrica che avranno imposto quella parola all’innografo, che cosa egli intendeva con “istorein”?
Se i tropari sono ispirati, come credo (credo che tutti siamo in qualche maniera le antenne di un’ispirazione, di uno Spirito (thisavròs tõn agathõn, tesoro di beni) che soffia, soprattutto se si è poeti, artisti), forse l’ “istoretheisan” va oltre il semplice “illustrare”, “rappresentare” – “dipingere”, come i più traducono.
Forse l’innografo voleva fare cenno all’umanizzazione della Theotókos, alla sua appartenenza alla storia? E che cosa ha fatto la Theotókos (non chiamatela Madonna) se non umanizzare, storicizzare il Logos?
E allora? Storicizzare per non creare idoli? Perché non dovremmo noi,
allora, storicizzare il rito? Non sostengo nel mio libro sull’icona che
bisogna uscire dal canone per non fare copie di copie? Coartare tutto
alle esigenze del tempo? Solo gli eidola sono immoti. Anche il
rito è un rappresentare, uno storicizzare, un raccontare misteri, un al
di là che si affaccia, si mostra, si racconta di qua, come allora non
storicizzarlo?
Mi risuonava nella memoria anche
un detto niciano che suona più o meno così: lo stare immoti è un peccato
contro lo Spirito Santo.
Rimasi nel tormento ritrovandomi – in un ruolo che non vorrei sostenere - un laudator temporis acti,
un idolatra quale non voglio essere, e non sono – idolatra del
passato, come un lefevriano, un vandeano, un ciellino, un integralista,
un fascista che eleva tutto a idolo tartufesco: “Dio, Patria, Famiglia”,
manganello da dare in testa a chiunque si metta nella scia dello
Spirito.
Mi soccorsero
due letture, un luogo di S. Agostino che ho citato altre volte dove il
santo di Tagaste dice che la vera preghiera che conviene a Dio è un tereteretere senza senso, per cui il nostro greco incomprensibile, poteva essere quel tereteretere,
un significante senza significato, o dal significato “misterioso”, con
l’aura del sacro come un mantra – le donne di Acquaformosa che cantano
la Paráklisis senza capirla; l’altra lettura, un luogo di Vattimo dove
il filosofo nichilista calabro piemontese sostiene che le cose sacre
andrebbero dette in lingue antiche, proprio per tenere il sacro lontano
dalla lingua di tutti i giorni – se poi pensiamo che la lingua di tutti i
giorni è quella usurata dei media, se poi pensiamo che la musica è
quella che ci entra in casa con i jingle commerciali, allora latino,
greco, canto gregoriano e canto bizantino dei monasteri ben vengano a
risollevarci dal deserto in cui ci hanno costretti gli illuminismi di
ogni genere che hanno scorticato la terra delle divine presenze.
Certo,
ho scritto contro la messa latina celebrata a Rivarolo dai fascisti e
dalla conventicola dei lefevriani e dei cavalieri di Malta in bardatura
similcrociata. Ma quel latino non aveva niente a che fare con il sacro.
Era una mazza “cattolica” da dare in testa a coloro i quali preferiscono
l’italiano e quindi secondo il sentire dei fascisti, cattolici non
sono. Il latino qui assumeva una indebita valenza politica. Si tenga poi
presente che il latino è la lingua ufficiale della chiesa romana,
dunque una messa latina in Vaticano ci sta tutta, non a Rivarolo.
Ora
siccome da noi la messa si celebra in greco da cinquecento anni e ci è
entrata nel sangue come seconda lingua, e siccome non si è mai
compromessa né con la politica né con finalità commerciali, allora a
rappresentare quel sacro, di cui parla il nichilista Vattimo, ci sta
tutta.
Perché metto
l’accento sul nichilismo di Vattimo al quale sembra niente il sacro? Ma
proprio perché il suo discorso non è orientato a sottolineare una
sostanzialità del sacro. Sottolinea piuttosto una presa di
responsabilità dei soggetti nei riguardi della nullità delle cose. Forse
proprio perché le cose sono transeunti bisogna prendersi la
responsabilità di non lasciarle andare: andiamo semmai noi con loro, che
le cose finiscano quando finiamo noi. E noi col greco in cuore non
siamo ancora trapassati, perché allora anticipare l’oltrepassamento del
greco?
Non buttiamo le
perle ai porci? Buttare il greco? In cambio di che? Di Italiano e
arbëresh? Perché no? Storicizziamo la liturgia, ma non traducendo la
greca.
Riscriviamone una in italiano o in
arbëresh, o in tutt’e due le lingue insieme facendo cenno a quell’ibrido
che siamo. Ma tradurre la liturgia greco-bizantina no.
Così
manteniamo l’icona e la sua funzione, ma dipingiamone di nostre,
secondo che ci detta dentro lo Spirito che spira, che mette in
movimento, ma non copiamo Rublëv. Rublëv è intraducibile, c’è quella
impossibilità che è rappresentata in filosofia dal “de se nunc”.
Nessun
musulmano si sognerebbe di leggere il Corano in lingua volgare. I
musulmani che hanno scuole di Corano sono linguisticamente più avveduti
di noi: sanno della impossibilità della traduzione senza un tradimento.
L’eco della polisemia linguistica di un “istoretheisan” va persa con la traduzione “dipinta”.
Così come quando traduciamo Kosmos e Mundus con “Mondo” tout court.
“Mondo” è parola totalmente catacresizzata, abusata, usurata, che non
dice più il significato di “Mundus” = “netto, pulito, elegante,
acconciato e per traslato: Universo, Terra ecc…”. Intendendo “Mundus” o
“Kosmos” che ha le stesse valenze semantiche, solo come Terra, Habitat,
mettiamo, come qualcuno ha detto un sasso in bocca al significante e
gli vietiamo di significare oltre il significato catacresizzato, abusato
e stereotipato, dall’uso comune.
Con Kosmos, come con “Mundus” non si intende “questo mondo”, “questa terra” in cui viviamo contrapposti a un mondo ultra terreno. Con Kosmos non si intende quel che vediamo, con i sensi, del firmamento (che è lo “stereoma”, lo spazio), ma un modo ordinato secondo figure e schemi matematici, emisferi, coordinate di orientamento (il Kosmos è un cielo umano, non il disordine di mondi che quel cielo è); o “mundus” un mondo ordinato secondo le leggi dell’imperium
- l’ordine fascista, l’ordine capitalistico, l’ordine della divisione
in classi, l’ordine dell’esercito schierato in battaglia ecc … Quindi
quando Cristo dice che il suo “regno non è di questo mondo”, dobbiamo
intendere che non sta parlando di un regno ultraterreno, ma di un
“ordine”, “Kosmos, Mundus”, tutto terreno, intendendo: “il mio
mondo non è di questo ordine di cose”, il mio ordine è fondato
sull’amore dei nemici, sul fare agli altri quello che vogliamo per noi,
sul non accumulare ricchezze, sul non scandalizzare i piccoli, sul non
pensare che puttane e pubblicani sian da rigettare perché non degni
della nostra pulizia (Mundus) del nostro perbenismo piccolo borghese, ecc...
E così altre parole fondanti l’espressione greca che non è la nostra: si pensi quando in greco si usa la parola Aletheia, che è tradotta e tradita come “verità”.
È per questo che i miei scritti abbondano di citazioni in greco – che qualcuno ha ritenuto senza logica.
Non
voglio togliere a quella lingua la risonanza, l’eco di significati, che
l’italiano catacresizza, stereotipizza, secondo le nostre categorie che
bloccano il campo semantico che quelle espressioni aprono in greco – o
nelle altre lingue in cui cito.
Ma qui il discorso si farebbe lunghissimo.
Ricordo
che una cosa è parlare arbërisht, e un’altra in italiano. Non
riserviamo l’arbëresh a situazioni intime, che non possono essere
veicolate da una lingua asettica come la lingua pubblica italiana? La
lingua pubblica è astratta, appartiene a tutti e a nessuno, ha pretese
di “oggettività”, tanto quanto gli idioletti appartengono ai singoli e
hanno tutte le sfumature del vissuto, dell’esistenziale, del
“soggettivo” – anche del soggettivo che è una comunità.
Così quando canto il Vasilev uranie alla maniera dei miei antichi Ngjosha e Çitri – i quali richiamavano quel tereteretere di Agostino quando cantavano l’alleluia dopo l’Epistola facendolo precedere da un lungo “ailè/leeeà/aileeeee” senza senso - l’anima si apre su profondità insondabili, dove “naufragar m’è dolce”.
Io
salverò, per me il greco, lo indosserò come monile prezioso lasciatomi
in eredità dai miei avi (non mi sognerei mai di usare il rito per dirmi
più cristiano di un altro o più ortodosso o più cattolico di un altro) e
andrò commuovendomi con quel Platone che quel greco mi ha messo in
condizione di intendere: Devr’ektrapómenoi katà ton Ilisòn iomen … - Giriamo di qua e andiamo verso l’Ilisso … dove appunto Socrate (l’illuminista, il razionalista, come si dice) e il suo discepolo Fedro incontreranno divine presenze ….
Qui
il discorso s’arriccia, torna su se stesso come per contraddirsi. Ma
non è il discorso, “nella sua goffaggine” che si contraddice, è la
realtà che si contraddice, una realtà che solo se è bivalente si
contraddice, se è monovalente accoglie in sé la tradizione “che sta” e
il suo divenire, il suo storicizzarsi; gli eidola e la loro negazione.