La fine del Casale di Palazzo in un saggio
di Domenico A. Cassiano
Domenico A. Cassiano e la fine del Casale di Palazzo
(di Francesco Marchianò)
Le
ricerche storiche sugli insediamenti albanesi nel Meridione d’Italia
proseguono grazie alla tenacia di studiosi che, estendendo il loro campo
di indagine anche in archivi privati, portano alla luce importanti
documenti contenenti notizie inedite che permettono di scrivere ex novo le vicende dei profughi arbëreshë dal XV sec. in poi.
Recenti pubblicazioni, curate da validi e consumati esperti – come
Petta, Mazziotti, Sarro e Mandalà – hanno illustrato agli appassionati
di storia albanese falsità storiche che per secoli sono passate per
verità venendo citate in bibliografie di nuovi testi e tesi di laurea.
Al
novero di questi seri studiosi bisogna affiancare, senza ombra di
dubbio, un instancabile ed appassionato cultore di storia patria, autore
di pregevoli saggi su personaggi e vicende calabresi ed albanesi, il
prof. Domenico Antonio Cassiano, già docente di storia negli istituti superiori e legale nei più importanti fori della Calabria.
Una
delle sue ultime pubblicazioni (2009) ha riguardato la tragica e breve
parabola di un minuscolo insediamento arbëresh nella Sibaritide, il
Casale di Palazzo, collocato nel quadro più ampio dell’economia e della
politica dell’epoca, XVI sec., offrendoci in vivo affresco di quella che
era la vita degli albanesi nel Vicereame di Napoli, in modo specifico
di quelli della destra Crati (S. Sofia, S. Demetrio Corone, Macchia
Albanese, S. Cosmo Albanese, Vaccarizzo Albanese e S. Giorgio Albanese).
L’Autore,
nel corso delle sue ricerche, ha reperito, tra le carte del notaio
Persiani un atto che narra la tragedia avvenuta tre anni prima, nel
1547, nei pressi della cittadina citata ad opera dei pirati turchi che
infestavano il Mediterraneo e che non disdegnavano di allearsi con la
Francia, allora nemica della nascente potenza spagnola in Europa, o
venire a compromessi con feudatari per compiere “lavori sporchi” a danno
di singoli individui o comunità.
Il
Cassiano identifica il casale di Palazzo, citato già in un elenco di
tassazioni del 1543, in una zona compresa fra i comuni di Corigliano
Calabro e S. Giorgio Albanese, oggi nota come “Serra Palazzo” nelle
carte topografiche di quel territorio.
Le
capitolazioni redatte, nel settembre 1509, informano che gli arbëreshë
di Palazzo, dei quali non si conosce né dove e quando fossero giunti in
questa terra, si erano insediati nel feudo ecclesiastico di “S. Maria de
Ligno Crucis”, similmente ai loro compatrioti di S. Demetrio, S. Sofia,
Acquaformosa, Lungro, etc… accolti in feudi badiali (Cap. I).
Essi
erano sottoposti alle leggi feudali dell’epoca, spesso molto dure,
abitando in misere abitazioni, erette con mattoni di paglia e fango,
coabitando in promiscuità con gli animali domestici o da lavoro.
Né
la loro condizione migliorò con il matrimonio di Erina Castriota con
Pietro A. Sanseverino, la quale viveva negli agi come tanti nobili o
ricchi albanesi, compreso Giovanni Castriota figlio di Skanderbeg, che
avevano scelto di vivere a Venezia, Napoli, Milano, Urbino o Venezia.
I
papàs, assieme alle mogli e figli, condividevano la miseria con i
propri fedeli zappando la terra, dissodando terreni, arginando torrenti,
costituendo una vera e propria ricchezza per i feudatari che avevano
visto i propri possedimenti spopolati da carestie e terremoti (Cap. II).
I feudi, compresa la plebe che vi
lavorava, venivano venduti o permutati e quindi sottoposti a nuove
leggi, tassazioni e ricatti che costringevano gli Albanesi a bruciare i “pagliara”
o condurre una vita nomade nella piana sibaritica o nella Valle del
Crati, pericolose sia per la malaria che per le comitive di banditi che
le infestavano.
Ma anche gli
Albanesi, costretti dalla circostanze, non disdegnavano di delinquere
rappresentando un pericolo per i casali calabresi circostanti tanto che
decreti reali e vicereali imponevano ai capi villaggio di cingersi di
mura o di costituire vere e proprie milizie di persone oneste per dare
la caccia ai “forbanditi”. Nel 1569-’70 la Sibaritide è colpita
da una grave carestia che provoca centinaia di morti, tanto che Erina
Castriota-Sanseverino ordinò la previdente costituzione di magazzini per
l’ammasso di grano e granaglie in previsione di calamità (Cap. III).
Difficili,
inoltre, erano i rapporti fra gli Albanesi ed il clero latino che mal
vedeva la presenza dei papàs sposati, contadini e che non pagavano tasse
né ai feudatari e né alle mense arcivescovili. Il Marafioti ci ha
tramandato la descrizione del misero villaggio arbëresh in cui non
esistono nobili e nessuno sa scrivere ad eccezione del caloiero o di cui vuol seguirne le orme.
Il Cassiano a tal proposito sottolinea con fermezza: “I
principi ed i signori albanesi, emigrati in Europa ed in Italia, non
andarono a popolare i casali, ma trovarono conveniente sistemazione
nelle città, servendo nella burocrazia e nell’esercito, inserendosi tra i
gruppi dirigenti della Penisola ed assimilandosi ad essi, abbracciando
la religione cattolica e differenziandosi dal popolo minuto, mandato a
servire i signori feudali italiani nei villaggi semivuoti, che possono
essere considerati alla stregua di veri e propri ghetti che, forse
proprio a causa di tale oggettiva situazione, si vennero a trovare nella
necessità di aggrapparsi alla tradizione, strenuamente difendendola,
contestando ogni tentativo di annichilimento dei modi resi possibili
dalle circostanze”.
Le zone di
provenienza dei profughi albanesi fa ritenere, senza alcun dubbio, che
la loro fede era legata alla Chiesa d’Oriente e che erano sotto la
giurisdizione dell’Arcivescovo ortodosso di Ocrida. Inizialmente,
secondo i dettami del Concilio di Firenze (1439) essi erano visti come
cristiani ma le cose mutarono radicalmente con il Concilio di Trento che
cominciò a considerali eretici, soprattutto sulla base di relazioni che
i vescovi delle diocesi meridionali inviavano alla Santa Sede circa le
consuetudini del clero e dei fedeli arbëreshë.
Inizialmente
i papi vietarono severamente ai vescovi ordinanti di Ocrida di visitare
i paesi albanesi, pena il carcere, poi Clemente VIII impose la
creazione di un vescovo ordinante greco ma dipendente da Roma
confermando la superiorità e l’unità del cattolicesimo.
Nei paesi arbëreshë, i papàs alfabetizzavano in lingua greca ed istruivano alle pratiche religiose i clerici
che, al pari del sacerdote erano considerate persone di rilievo nel
casale ed erano esentati dalle tasse, beneficio che veniva esteso agli
eredi anche dopo la loro morte.
I vescovi latini di ritorno dalle visitationes
effettuate nei casali albanesi stendevano relazioni negative sul
comportamento del clero greco e dei fedeli, soprattutto in quel che
concernevano la Quaresima, la Pasqua ed altre osservanze stridenti con
la pratica religiosa latina.
Spesso
i vescovi latini, in combutta con il feudatario e le autorità dei
casali, imponevano con la violenza il rito latino come accade in alcune
comunità ed in modo cruento a Spezzano Albanese, il cui parroco don
Nicola Basta morì in carcere pur di non abiurare la fede ortodossa
(1666) (cap. IV).
Crisi
demografica, calamità naturali e banditismo avevano sconvolto la
Calabria del sec. XV devastandone l’economia la quale, però, riprese
vigore con la venuta degli Albanesi che trovarono inizialmente dimora in
grotte naturali o costruendo dimore provvisorie (pagliai e tuguri)
spostandosi nei dintorni della piana di Sibari in cerca di lavori
stagionali e luoghi migliori dove costruire, come faranno in avvenire,
case “de calce et de arena”.
Per
sopravvivere gli Albanesi non esitarono a dare la caccia ai numerosi
briganti, spesso anche albanesi, ottenendo dalle autorità ricompense e
lodi. La loro povertà era così estrema che il potere reale impose agli
esattori di non riscuotere troppe tasse oppure a provvedere alla loro
rateizzazione!
La situazione di
miseria spingeva molti Arbëreshë a delinquere non solo ai danni delle
popolazioni calabresi ma anche di quelle albanesi tanto che le cronache
dell’epoca riportano omicidi avvenuti nei piccoli casali.
Questo
contesto ci presenta una popolazione che per vivere si dà alla macchia,
al latrocinio, a bruciare le proprie miserabili dimore pur di non
pagare le tasse oppure a sottostare alle dure condizioni di corvées
imposte dai feudatari, quindi si trattava di gente povera e non di “nobili signori”,
di miseri contadini venuti in ancor più misere zone del Meridione a
piccole ondate migratorie e non guidati da condottieri che una falsa
tradizione ha tramandato fino a qualche decennio fa!
Il
Cassiano sostiene che tra la fine del XVI sec. e la metà di quello
successivo cominciarono a delinearsi le prime abitazioni, con pochi vani
soprastanti, con le strade e stradine e con immancabile orto dove
coltivare il gelso e le piante necessarie per la piccola e fragile
economia domestica.
Nel frattempo
si intensificavano le relazioni commerciali con i paesi vicini, i
matrimoni, i contratti di lavoro con i feudatari laici ed ecclesiastici e
piccoli proprietari terrieri con benefici per i bracciali che non di rado si arricchivano dando origine alla “borghesia rurale” dei paesi arbëreshë.
L’Autore,
citando il catasto onciario del Decennio francese, descrive la piramide
sociale, consolidatasi già nel Cinquecento, ponendo alla base i brazzali, poi i custodi di animali ed i foresi, coloni, massari ed artigiani divisi in varie categorie, poi più su i civili (benestanti), professionisti, ecclesiastici e qualche “nobile”.
Da
ciò si deduce che i casali arbëreshë dipendevano da un sistema
agro-pastorale in cui i contadini coltivavano gelseti, oliveti e vigna,
grano e colture promiscue mentre gli allevatori ovini, bovini e suini,
mentre scarsi erano le botteghe artigiane ed il commercio (Cap. V).
Il
quadro economico ci presenta un popolo povero, giunto nel Meridione
senza guide, senza punti di riferimento, un popolo sbandato mentre il
principe Giovanni Castriota godeva degli agi della corte napoletana.
L’Autore smitizza alcuni topoi che descrivevano gli Arbëreshë
come eroi, come nobili fuggiti dall’Albania in quanto di condizione
abbiente che permetteva loro di pagare il naviglio che li trasbordava in
Italia assieme alla servitù. Falsi risultano la presenza di Demetrio
Reres, già contestato dallo Zangari (1940), falso risulta il “Manoscritto di Agostino Tocci”, falsa risulta la tradizione dei “nobili coronei”!
Su
questo argomento l’Autore si sofferma ampiamente e con dovizia di
particolari, come già fatto nei precedenti capitoli, sostenendo che “… lo studio delle fonti dimostra che le poche migliaia di abitanti della città di Corone non erano albanesi, essendo la popolazione costituita da greci e da un rilevante numero di discendenti italiani, detti gasmuli, una specie di meticci orientali”.
Gli
Albanesi vivevano nelle campagne attorno alla città e che erano stati
accolti dalla Serenissima alla fine del XIII sec. con lo scopo di
ripopolare i territori di Nauplia e dell’Eubea. Essi, però, erano
malvisti dalla popolazione veneta poiché dediti all’abigeato, alla
rapina e facili alla rissa essendo di indole turbolenta. In seguito
Venezia inquadrò molti albanesi, abili cavalieri, nelle milizie
stradiote utilizzandoli nelle varie guerre contro i Turchi ed in Italia.
Citando varie fonti coeve, il
Cassiano sostiene che la città non venne affatto liberata da Carlo V ma
consegnata ai Turchi in base a precedenti accordi o per un ammutinamento
della guarnigione spagnola.
Sul
numero di questi profughi esistono fonti storiche discordanti (1500 o
5000) che presentano una popolazione composta da greci ortodossi, latini
e albanesi dei villaggi ribellatisi ai Turchi in fuga da loro possibili
e crudeli rappresaglie.
Alcuni
profughi coronei furono inviati in Lucania dall’ammiraglio Andrea Doria
un cui parente aveva ereditato da lui il feudo di Melfi, quindi essi
furono inviati in territori dove potevano essere ben accolti con le
dovute credenziali.
L’Autore
sostiene che la distribuzione dei profughi avvenne con criteri
discriminatori in base all’appartenenza sociale: i ricchi nei grandi
centri e la massa dei poveri nei vecchi e miseri casali del Meridione a
coltivare le terre dei feudatari!
Carlo
V non a tutti i Coronei concesse l’esenzione fiscale, consistente in
una somma variabile tra i 10 e i 70 ducati e né esistono documenti che
attribuiscono ad essi qualsiasi titolo nobiliare.
Solo nel XVIII sec. alcune famiglie arbëreshe, raggiunta una buona posizione socio-economica, aggiunsero al proprio cognome “de’ Coronei” per “appagare la propria vanità e di avere un pennacchio per avere più autorità nelle comunità contadine di residenza”.
Secondo
il Mandalà il mito della nobiltà coronea venne creato a Mezzojuso,
colonia albanese della Sicilia, e poi propagato da Pompilio Rodotà nella
sua monumentale opera sul rito greco.
Il
Cassiano, inoltre fornisce al lettore, un nutrito elenco di coronei
sussidiati, dal 1578 al 1593, abitanti per la maggior parte a Napoli,
Palermo e Barletta. In seguito il loro numero divenne esiguo, per
decesso o trasferimento, fino ad estinguersi del tutto (Cap. VI).
Infine
l’Autore, dopo tali premesse storiche, economiche e religiose, affronta
il triste argomento della scomparsa del casale di Palazzo sottolineando
che l’episodio avvenne la domenica mattina del 23 febbraio 1547, quando
tre imbarcazioni gettarono le ancore alla fonda di Corigliano.
Riportando
in corsivo la narrazione contenuto in un atto del citato notaio
Persiani di Corigliano (1550), si evince che la popolazione di casale,
in mancanza di una chiesa, era riunita in un pianoro per seguire la
messa quando venne circondata dai Turchi, trasbordata nelle navi e forse
venduta come schiava nei vari mercati d’Oriente.
I
pochi abitanti rientrati trovarono il casale disabitato, con i pagliai
bruciati, le poche case abbattute mentre intatti erano i terreni
coltivati a grano ed altro.
Il Cassiano, tenendo conto del giorno di domenica, parla di un vero e proprio ipotizzando che “L’incursione
fu organizzata preventivamente con il sicuro concorso di persone del
posto, che mal sopportavano i forestieri, che vivevano tranquillamente,
dediti al lavoro nei campi loro assegnati, oppure interessati al rientro
economico della vendita del prodotto del saccheggio e degli stessi
albanesi, certamente venduti come schiavi”.
Inoltre
egli prosegue affermando che probabilmente informatori dei ceti più
bassi della popolazione coriglianese, avendo in odio il Barone locale, e
simpatizzando per l’Islam avessero fornito ai Turchi ogni appoggio.
Lo
Zangari, che aveva reperito e pubblicato le tassazioni del 1543, ci ha
tramandato i cognomi di questi sfortunati arbëreshë: Bardo, Baffi,
Brunetto, Comestabulo, Lopez, Pageres, Pisani, Scura e Zingaro.
I
sopravvissuti alla razzia si sono poi sparsi nei vari paesi albanesi
circostanti facendo perdere così ogni traccia di se portandosi sempre
nel cuore la tragedia che aveva colpito il piccolo casale di Palazzo
(Cap. VII).
Scheda del libro:
Domenico Antonio Cassiano, Il paese scomparso – Greco-albanesi in Val di Crati (sec. XV-XVIII). Ideologia e miti, Editrice Libreria “Aurora”, Corigliano Scalo (Cs), gennaio 2009.
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